Scrittura e scritture
di Carmelo Santoro
L’Innominato era un potente feroce signorotto, a parere di molti studiosi realmente esistito, che aveva fatto della violenza e della prevaricazione le costanti della sua vita. È a lui che Don Rodrigo si rivolge per chiedergli di rapire Lucia, che si era rifugiata nel convento della monaca di Monza. In realtà era già da un po’ che l’Innominato avvertiva, sottopelle, un vago senso di inquietudine per quella sua vita così violenta. Era una sensazione strana per lui, mai provata in precedenza, che faticava a decifrare. E così, mentre il Nibbio (il bravo che don Rodrigo aveva mandato a compiere il rapimento) gli raccontava quanto Lucia gli avesse fatto compassione, l’Innominato comincia ad avvertire i morsi della coscienza.
“Tutto a un puntino” rispose, inchinandosi, il Nibbio: … ma…”
“Ma che?”
“Ma… dico il vero, che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso.”
“Cosa? cosa? che vuoi tu dire?”
“Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo… M’ha fatto troppa compassione.”
“Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione?”
“Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo.”
“Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.”
“O signore illustrissimo! tanto tempo…! piangere, pregare, e far cert’occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole…”
— Non la voglio in casa costei, — pensava intanto l’innominato. — Sono stato una bestia a impegnarmi, ma ho promesso, ho promesso.
Così, congedato il Nibbio, l’Innominato comincia a tormentarsi.
— Un qualche demonio ha costei dalla sua. Un qualche demonio, o…. un qualche angelo che la protegge…. Compassione al Nibbio!… Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, — proseguiva tra sé, con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà — e non ci si pensi più. Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che…. non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perché…. perché ho promesso: e ho promesso perché…. è il mio destino. Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui.
Insomma: questa sconosciuta inquietudine spaventa l’Innominato.
… compassione al Nibbio! — Come può aver fatto costei? – continuava, strascinato da quel pensiero. — Voglio vederla…. Eh! no…. Sì, voglio vederla.
L’incontro con Lucia rappresenta una delle più belle pagine del romanzo. Entrato nella stanza, vede Lucia rannicchiata in terra in un angolino.
“Alzatevi” disse l’innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare, l’aprire, il comparir di quell’uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell’animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta.
“Alzatevi, ché non voglio farvi del male…. e posso farvi del bene” ripeté il signore…. “Alzatevi!” tonò poi quella voce, sdegnata d’aver due volte comandato invano.
Come rinvigorita dallo spavento, l’infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un’immagine, alzò gli occhi in viso all’innominato, e riabbassandoli subito, disse: “son qui: m’ammazzi.”
“V’ho detto che non voglio farvi del male” rispose, con voce mitigata, l’innominato, fissando quel viso turbato dall’accoramento e dal terrore.
E perché” riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si sentiva una certa sicurezza dell’indegnazione disperata, “perché mi fa patire le pene dell’inferno? Cosa le ho fatto io?”
“V’hanno forse maltrattata? Parlate.”
“Oh, maltrattata! M’hanno presa a tradimento, per forza! perché? Perché m’hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio”
“Dio, Dio,” interruppe l’innominato: sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi….? ” e lasciò la frase a mezzo.
“Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare!”
L’Innominato è straordinariamente turbato. Non capisce come la sua coscienza, indifferente negli anni alle violenze e alle nefandezze più orribili, tremi adesso di fronte alle lacrime di Lucia. Però sente dentro la sua anima di non volere più essere ciò che è stato sino a quel momento e questa consapevolezza lo spiazza profondamente, gli mette paura. E così, nella notte che segue, Lucia, indifesa e umile, rapita per volere di un uomo violento e crudele, prigioniera nella casa di questi, trova pace e conforto affidandosi alla misericordia del Signore, e si addormenta. L’Innominato, al contrario, anche se si trova al sicuro tra le mura della sua casa, smania in preda al delirio di una coscienza che rimorde senza tregua. E la sete di Dio, da vago tremolio avvertito sottopelle e subito cacciato via, divampa come un incendio che tormenta la sua anima.
Partito, o quasi scappato da Lucia, il signore s’era andato a cacciare in camera, s’era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto.
L’immagine di Lucia, tuttavia non gli da pace:
“Cos’è stato? Che diavolo m’è venuto addosso? Che c’è di nuovo?” si domanda incredulo e angosciato. E cerca, nella mente, altre mille episodi in occasione dei quali né preghi né lamenti l’avevano smosso da compire le sue risoluzioni. Ma il ricordo di queste violenze non lo tranquillizzano: al contrario si desta in lui sempre più forte una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. E pensando a Lucia: “E’ viva costei,” pensava, “è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi… Perdonatemi? Io domandar perdono? Ah, eppure! Se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! Sento che la direi. A che cosa son ridotto! E per far passare questadiavoleria, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile.
L’Innominato aveva una sete terribile di Dio. Glielo rivela, il giorno seguente, il cardinale Federico Borromeo, presso il quale l’Innominato si era come portato lì per forza da una smania inesplicabile.
I due stettero alquanto senza parlare. Finché il cardinale: “E che? voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?”
“Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.”
“Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo”.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (cap. XXI)