Sottovoce

di Maurizio Dell’ Acqua

Sono le 9 e trenta e, come spesso mi capita, sono in ritardo. Per le 10 e venti devo trovarmi in Prefettura, per fare un favore ad un amico che lavora all’estero. Sua mamma ha a servizio Cristina, una giovane badante moldava alla quale sta per scadere il permesso di soggiorno provvisorio e, perciò, ha necessità di regolarizzare la sua posizione per continuare a lavorare. La signora è anziana e ha problemi di deambulazione, per questo ha predisposto una delega a mio nome perché io possa svolgere in sua vece la procedura prevista per legge.
Esco di casa di fretta. Entro in ascensore e, mentre scendo, ho la sensazione che mi manchi qualcosa. Mi tocco le tasche della giacca: le chiavi di casa le ho appena messe al sicuro in borsa, il telefonino pure, gli occhiali ci sono, chiaramente indispensabili per firmare quei documenti. Ho tutto, ma quella sensazione continua a tormentarmi. Uscito dal portone, salgo in macchina. Finalmente posso togliermi la mascherina. Mi porto la mano all’orecchio per allargare l’elastico, ma non lo trovo. Mi guardo nello specchietto e mi accorgo di tutto. Ecco cosa mi mancava. L’ho dimenticata a casa. Non posso andare da nessuna parte senza. Istintivamente voglio uscire dall’auto, ma vedo che in strada mi vengono incontro due tizi che fanno jogging. A quest’ora del mattino?! E pure senza mascherina! Aspetto, li lascio passare. Prima di uscire guardo nello specchietto esterno, aspettando che si allontanino ragionevolmente, secondo le indicazioni sanitarie. È fatta! Mentre apro lo sportello sopraggiunge da dietro una donna in bicicletta, anche lei senza mascherina. Richiudo subito lo sportello. Appena mi supera, esco in fretta, raggiungo il portone, prendo l’ascensore, arrivo a casa, afferro la mascherina, la indosso e, velocemente, faccio tutto il percorso all’incontrario.
Ci sono: risalgo in macchina, mi tolgo la mascherina, metto in moto e parto a razzo.
Il tempo passa. Ora la mia preoccupazione è trovare parcheggio. In zona Monforte la questione è sempre problematica. Dalla mattina alla sera. Anche in tempo di Covid. Ma la mia macchina è piccola. Spero di non impazzire a cercare un posticino. Giungo al semaforo sulla Circonvallazione interna che apre su Corso Monforte. Lo supero e mi accorgo di un tizio sulla quarantina che cammina in strada, rasente le auto parcheggiate. È vestito di tutto punto come un manichino, ma pure lui senza mascherina, però. Meno male che vado piano e sono in macchina. Rallento ancora, per evitare problemi, quasi a fermarmi, anche se non ce ne sarebbe bisogno. Non mi pare vero: le luci di un grosso Suv davanti a me lampeggiano. Ho trovato parcheggio! “Muoviti, che ho fretta!” vorrei urlargli a quel tale. Figuriamoci. Quello fa tutto a modo suo, comodamente. Finalmente se ne va e io posso parcheggiare. Spengo il motore, indosso la mascherina. Veloce, scendo dall’auto e, a passo svelto, mi incammino verso il luogo dell’appuntamento. Arrivo davanti alla prefettura pressappoco all’ora stabilita. Lì, a pochi metri dal portone ci sono due giovani donne con la mascherina, che chiaramente sembra stiano aspettando qualcuno. Cristina l’ho intravista una sola volta a casa del mio amico. La riconosco, è lei. Mi avvicino. Ma è l’altra giovane che mi rivolge la parola, spiegandomi che ha accompagnato l’amica per aiutarla nella lingua. Insomma, le farà da interprete. “D’accordo, non ci sono problemi”, le faccio capire. Entriamo. Nell’androne c’è una guardia armata di tutto punto, con un mitra a tracolla e, naturalmente, con la mascherina d’ordinanza indossata. Ci viene incontro e mi domanda il motivo della nostra visita. Gli spiego ogni cosa in pochi secondi. Capisce tutto subito e ci invita ad avanzare in uno stretto corridoio. Lì c’è un altro piantone. Pure lui vestito di tutto punto, senza mitra ma con la mascherina ben indossata. Mi domanda il nome e, poi, lo verifica su un registro che ha su un banchetto. Lo spunta e mi chiede un documento. Nell’altra mano ha un termoscanner. Mi misura la temperatura sulla fronte e, poi, lo fa anche alle due giovani. Dopo chiede a loro il passaporto e ci invita a sederci in una grande sala, lunga ma stretta, dove ci sono tre sportelli con un paio di impiegati ciascuno, tutti ben attrezzati con mascherina e guanti. E sono pure ben protetti dai visitatori da un vetro spesso. Quello che mi stupisce è che questa sala è piena zeppa di seggiole tipo cinematografo, ma sbarrate alternativamente con del nastro a fasce rosse e bianche per assicurare l’indispensabile distanza sanitaria di un metro.

Diavolo di un virus, che cosa ci costringe a fare! Mi guardo in giro, non c’è molta gente. Altri due o tre gruppi, ben distanziati tra loro. Penso siano lì per lo stesso motivo del nostro. Anche l’attesa non si protrae a lungo. Ci chiamano allo sportello, cortesemente con il nostro nome. Mi chiedono la delega, mi invitano a confermare la veridicità della richiesta con un paio di firme, ci restituiscono i documenti e consegnano alle giovani quanto era da loro desiderato: un foglio sul quale c’è stampigliata la regolarizzazione della posizione di Cristina e pure il suo codice fiscale nuovo nuovo. È fatta! Ora la giovane è in regola con la Legge italiana. Finalmente possiamo uscire da quel luogo, siamo fuori. Ci salutiamo: parole gentili, sguardi di gratitudine da parte delle giovani, ma niente strette di mano. Le nuove regole le hanno bandite e urtarci con il braccio mi sembra un modo ridicolo come forma di saluto. Ora che sono fuori, mi guardo un po’ in giro. Mi ricordo degli anni passati. Ho lavorato quasi tre lustri in questa zona, fin poco prima del Duemila. Come è cambiata Milano. Come siamo cambiati noi! Soprattutto in quest’ultimi 15 mesi. Tra poco sarà mezzogiorno, Corso Monforte comincia ad affollarsi. Dirigendomi al parcheggio, attraverso una piazzetta, vedo lì ferme e ben allineate diverse auto di grossa cilindrata. La zona lo permette, è una delle più ad alto reddito della metropoli. Vi sono degli uomini là vicino, vestiti con giacca e cravatta: saranno sicuramente degli autisti. Hanno tutti giù la mascherina. Qualcuno sotto il mento, altri al gomito. Qualcun’altro sta fumando. Che buffo che è questo atteggiamento borioso! Dall’altra parte della strada c’è una ragazza che mi viene incontro. Ha giù la mascherina anche lei. Probabilmente, pensando ad un probabile passaggio ravvicinato, si sistema il dispositivo alla bell’e meglio. Camminando oltre, la mia attenzione avverte, ad un tratto, una condizione di pericolo. A qualche metro da me, dei facchini stanno trasportando un grosso pianoforte da parete dal prestigioso negozio di strumenti Bosoni verso un furgone fermo al ciglio del marciapiede. Mi fermo a distanza anche perché quegli omoni non hanno la mascherina, mentre il loro caposquadra la indossa correttamente, e non è una semplice chirurgica, ma bensì una FFP2. “Che forse i poveri e gli umili non ne abbiano diritto?” mi chiedo. Ma presto ho modo di racconsolarmi, perché dalla tasca posteriore dei pantaloni di uno di quegli omoni vedo sbucarne una. Un po’ malconcia, ma pur sempre adatta a proteggere quel che deve. Probabilmente non la indossano quando devono fare sforzi gravosi, mi viene da pensare. Sicuramente è così. Poco dopo, raggiungo la mia auto e, con gran sollievo, anch’io mi tolgo la mascherina. Decisamente è meglio senza. Ma rifletto: perché tutto questo? È allora che mi sovvengono le parole di Gesù: «…Vi saranno in vari luoghi terremoti, carestie e pestilenze… E per questo, in molti si raffredderà la carità… Ma chi avrà saputo perseverare sino alla fine, sarà salvo.» Mt 24, 7-13
Lentamente mi avvio. Lungo la strada di ritorno vedo un mondo diverso: giovani e vecchi, belli e brutti, donne e uomini: sembrano tutti uguali con le mascherine. “Chi l’avrebbe mai detto? Mi domando, “che sarebbe accaduto tutto questo?!” Sono quasi arrivato a casa e mi stupisce vedere alla fermata dei tram la gente che si spintona, con volti che si urtano, con mascherine che si slacciano. Ma come, non sono più vietati gli assembramenti? E allora perché si accapigliano così per un posto a sedere?
Che buffo che è diventato questo mondo!
Ci hanno assicurato che con i vaccini saremo stati tutti più protetti e gli abbiamo creduti. Siamo corsi a vaccinarci. Ma da qualche settimana preoccupa molto la variante Delta. I casi positivi aumentano e l’indice RT risale. E, così, ripiombiamo un’altra volta nella paura. Da pochi giorni, però, è possibile non indossare più la mascherina all’aperto. Guardandomi in giro a me sembra che non sia cambiato niente. Anzi, ora la indossano tutti. Ancora più di prima, forse. È proprio buffo tutto questo: non crediamo proprio più a nessuno! Tutto è diventato buffo. Buffo e ancora più buffo di sempre.
Così mi rifugio nella mia unica certezza: il Vangelo. Da cui traggo linfa vitale ogni giorno.