Parola e vita
di Donatella Carlotti
Il dramma di un uomo che millenni di anni fa perde tutto è ancora oggi l’emblema della sofferenza umana e ci interroga molto davanti ai tanti dolori dell’umanità che si sono succeduti nel corso della storia e che ancora oggi accadono e ci lasciano muti; si pensi ad esempio alle guerre, alle stragi di innocenti, alla shoah piuttosto che all’attuale pandemia così come ai dolori che ognuno di noi attraversa nel proprio cammino personale compresi quelli che ci causiamo noi stessi, vittime delle nostre resistenze e delle nostre chiusure.
La figura di Giobbe e la lettura del suo libro mi ha sempre suscitato nel corso degli anni molti interrogativi. Ogni volta che mi ci sono accostata ho trovato spunti diversi di lettura e soprattutto ogni volta mi si apriva un velo di comprensione che successivamente si oscurava; quando mi sembrava di aver capito cosa volesse dire il testo subito mi accorgevo che non era quello il senso, eppure qualcosa di vero l’avevo toccato. Rimane il sospetto che sia una meta incompiuta: un mistero come è il rapporto tra Dio e l’uomo.
Giobbe è l’uomo che si rivolge a Dio, che lo interroga, che gli chiede ragione di quanto accade ma sa anche tacere perché “come può avere ragione un uomo davanti a Dio?” 9,2
Il legame tra l’umano e il divino è un mistero che non ha risposte. La logica di Dio non è la logica dell’uomo, il suo pensiero trascende il ragionamento umano.
Il racconto è semplice. Un uomo che vive una vita agiata, con molti averi si vede improvvisamente cadere in disgrazia e con lui tutta la sua famiglia, i suoi servi , il suo bestiame.
Inizialmente conserva la sua serenità,
“Nudo uscii dal seno di mia madre, nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore” 1, 21
ma quando viene colpito non solo nei suoi beni e nelle sue relazioni ma anche nel suo corpo, nella sua intimità la sua iniziale obbedienza si trasforma in una protesta. Dal terzo capitolo le sue parole cambiano: comincia a maledire il giorno della sua nascita, a preferire di non essere mai esistito fino ad inveire quando si presentano gli amici, freddi testimoni capaci di insegnare ma indifferenti al suo dolore, che con parole vuote pretendono di dare consolazione. Giobbe non accetta le loro spiegazioni di poco conto. Inizia cosi un lungo discorso di difesa, urla per protestare contro il suo dolore, si ritiene giusto e si ribella a degli avvocati difensori, maestri nell’interpretare il pensiero di Dio, ritenendo di avere risposte solo da Dio stesso: un incontro faccia a faccia. (cap. 29-31)
Infatti Dio accetta l’incontro scontro, egli risponde al grido della persona disperata e ferita che come Giobbe lo chiama in processo ma rimane sempre ancorata alla fede. L’intero capitolo 19 del libro è una autentica professione di fede.
E ancora Giobbe dirà “..qualora anche tu mi uccidessi io continuerò a credere in te.” 13, 15
Mi chiedo se Dio sarebbe contento di vedere in noi una cieca obbedienza magari dettata dalla consuetudine e dal troppo rigore nell’osservanza o forse non gradirebbe uno scambio vivace pur nel rispetto della sua grandezza!?
Il nostro credere è spesso intrecciato con il buio, l’oscurità, le domande e i dubbi;
anche noi come Giobbe non troviamo risposte ai molti interrogativi sulla caducità della vita, sulla solitudine o l’abbandono anche da parte di persone care, di amici che rendono ancora più amara la solitudine.
Eppure il dolore è il momento ideale per parlare con Dio in modo puro.
Si attua come un meccanismo interiore per cui dopo aver urlato tutte le nostre accuse e la nostra disperazione alla fine speriamo sempre in lui.
Ricerchiamo l’intimità con il Padre, il suo vero volto attraverso la sofferenza, e troviamo un Dio che trasforma… è la trasformazione del dolore per opera della fede.
Accettare tutto come un dono e fidarsi anche nella prova non è facile. Cosa può impedirci di aprirci totalmente, di mostrarci al Signore in in tutta la nostra nudità. Forse la paura di essere inadeguati? Forse il timore di non essere accolti? O piuttosto la resistenza a lasciarci trasformare radicalmente.
Eppure “se Giobbe si lasciasse condurre da Dio”….
Se corressimo questo rischio, se ci lasciassimo condurre da Dio… esiste una logica suprema, un disegno che per la mente umana è incomprensibile.
Giobbe cerca la lotta con quel Dio dall’agire misterioso per andarne alla sua vera scoperta. Si tratta di una ricerca condotta in sentieri pieni di difficoltà.
Ma la lotta genera l’abbraccio e come Giacobbe nella lotta con l’angelo in Genesi 32 ne esce vittorioso ma zoppicante anche Giobbe non è indenne. Il Signore lo lascia nella sua miseria e nella sua imperfezione, la sua ferita è ancora aperta, pur avendone ristabilito le sorti (Cap. 42,10) e se inizialmente aveva usato l’arma della parola, al termine si trova in silenzio. Non c’è nulla da dire ad un Dio col quale non c’è paragone, che manifesta tutta la sua grandezza. Cap. 38-39
Dio non spiega tutto. Giobbe e il suo dolore fanno parte del Suo disegno che può essere percepito ma non capito del tutto. C’è un ordine incomprensibile e Giobbe tace perché scopre che si era sbagliato: voler trovare una spiegazione semplice ad un mistero cosi grande come l’esistere umano è impossibile.
“ Ecco, sono ben meschino, che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca.
Ho parlato una volta, ma non replicherò
Ho parlato due volte ma non continuerò “ 40, 3-5
Il suo ragionamento non esauriva anzi oscurava il progetto di Dio.
“Chi è colui che senza avere scienza, può oscurare il tuo consiglio?” 42,3
A questo punto non ha più bisogno che Dio lo guarisca e gli restituisca tutto; sperimenta la gratuità sovrabbondante del suo amore e si scopre all’interno di un disegno che non segue la logica umana ma si può cogliere solo per fede.
E la fede vera non cerca nessun ricambio sebbene Satana, all’inizio del libro, insinui che
Giobbe abbia una fede che cerca vantaggi: ”Forse teme Dio per nulla?” 1, 9
e non ostante il lieto epilogo scritto solo per soddisfare il lettore dell’epoca.
La confessione finale è la vera conclusione del libro:
“ Io ti conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono.
Per questo mi ricredo e mi pento sopra la polvere e la cenere.” Cap. 42,5-6
L’incontro con Dio passa attraverso la croce di Cristo e Giobbe è un po’ l’anticipazione del credente cristiano. Anche Gesù vive il dolore sulla propria pelle ma lo colloca all’interno di un disegno di amore divino. Il grido sulla croce “Eloi, Eloi lama sabachtani” rimane solo apparentemente senza risposta. Subito dopo, Gesù affida il suo spirito al Padre; nel mistero della sua morte si colloca la sua resurrezione, la sconfitta del male.
“Terminata la scena, quando si toglie lo scenario, parleremo con Dio, parleremo di Dio nello stesso modo di prima?”
(Luis Alfonso Schokel – gesuita spagnolo)