Parola e vita
di Pietro Cioli
Predestinato al tradimento e alla dannazione?
C’è una frase in Giovanni che mal tradotta può indurci in errore, una differenza da poco, una virgola fuori posto: non “nessuno di loro è andato perduto – tranne il figlio della perdizione – perché si compisse la Scrittura”, ma “nessuno di loro è andato perduto, perché si adempisse la Scrittura – tranne il figlio della perdizione” (Gv 17,12). A compiere le Scritture non è il tradimento di Giuda, come se il suo fosse un destino assegnato e inesorabile, ma la cura che Gesù presta ai discepoli, tutti indistintamente accolti come dono del Padre e che Egli ha sempre voluto proteggere e custodire. Misteriosamente, tale cura non si è rivelata efficace con Giuda, indicato con terribile epiteto “figlio portatore di perdizione”. Gesù non è riuscito a purificarlo con la parola: “Chi ha fatto il bagno non ha bisogno di lavarsi se non i piedi, ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti. Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: Non tutti siete puri.” (Gv 13,10-11); e neppure con i suoi gesti amorevoli: la lavanda dei piedi da cui non lo esclude, ed il boccone che gli offre durante la cena (Gv 13,1. 26). La Scrittura si compie non perché Giuda è predestinato alla perdizione, ma perché al giusto perseguitato, (Sal 41,10; Gv 13,18) non è risparmiata l’amara esperienza del tradimento, situazione estrema imposta all’amore incondizionato che vuole arrivare sino alla fine.
E’ anche probabile che Giovanni si sia ispirato alla figura apocalittica del “figlio della perdizione” (2Ts 2,3-4), che precederebbe la venuta del Cristo. Tuttavia va detto che, psicologicamente e narrativamente, la figura di Giuda pare sovraccarica, come se in una sorta di transfert i vangeli proiettassero su di lui la quintessenza dell’antagonismo a Gesù, il peggio di ognuno. Anche l’accusa riservatagli di esser ladro e bugiardo, pur essendo una tradizione condivisa (Gv 12,6 Mt 26,14-16; Mc 14,10-11; Gv 12,6), pare da valutare non tanto come un ricordo storiografico, ma come un ulteriore cenno che fa di lui un esempio da non prendere a modello. Una esagerazione che poi spiega perché, per contrappasso, nasca la necessità, come fanno alcuni, di riabilitarlo a tutti i costi, addirittura attribuendo al suo gesto un valore ascetico e persino eroico in quanto renderebbe possibile il piano salvifico di Dio.
Tale sovraccarico ci pare un effetto ridondante della caratterizzazione che lo contrappone a figure quali il discepolo amato, Pietro, Maria di Betania. Giovanni in tal modo suggerisce che, per evitare il tradimento, si debba percorrere una via opposta: la via dell’amore coinvolgente per Gesù.
La fine di Giuda
Il vangelo di Giovanni evita di psicologizzare o giustificare il tradimento di Giuda ed evita anche qualsiasi riferimento al suo suicidio. A differenza di Matteo non prevede alcun rimorso di coscienza (Mt 27,3-10) o una morte raccapricciante come fa Luca (At 1,16.25). Per Giovanni rifiutarsi di credere è già perdere la “vita vera”, l’odio contro Gesù è già un suicidio, qualcosa di immotivato come la preferenza per le tenebre invece della luce. Non sappiamo se l’idea del suicidio venga da un ricordo storico o nasca dalla rielaborazione della storia di Achitofel, il miglior consigliere del re Davide, che dopo averlo tradito si suicida.
Quel che Giovanni accentua è la contrapposizione tra il tradimento di Giuda e l’amore di Gesù, che nella cena d’addio lo accoglie e semmai prova a rilanciare, sfidando la sua libertà: “Allora Gesù gli dice: quello che stai per fare, fallo presto!” (Gv 13,27). Nella scena dell’arresto Giovanni omette il bacio, che troppo avvicina i due e inquadra tutto dal punto di vista di Gesù: la libertà con cui Egli si consegna, la sua gloriosa sovranità che si impone e getta a terra le guardie ed anche Giuda. (Gv 18,6). Anche l’ingloriosa fuga dei discepoli durante la passione è reinterpretata da Giovanni: “Vi ho detto: sono Io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano” (Gv 18,8), come se Gesù li esentasse da una prova che, prima di ricevere lo Spirito, non avrebbero potuto sostenere (Gv 15,26-27). Gesù, interrompendo poi il gesto violento con cui Pietro vuole impedire il suo arresto pare rileggere l’evento oscuro del tradimento: “il calice che il Padre mi ha dato non dovrò berlo?” (Gv 18, 11). In tal modo, Giuda suo malgrado viene collocato nel più ampio orizzonte di donazione e di amore di Gesù e del Padre: il suo “più grande” peccato come ogni altro peccato del mondo non è pari alla forza dell’Agnello, che è venuto per caricarselo e toglierlo (Gv 1,29).
In seguito Giuda scompare dal racconto, nulla si dice della sua fine. Questo silenzio reticente non va riempito con l’immaginazione, ma rispettato come segno di qualcosa di inspiegabile e confrontato con il più grande mistero della croce dalla quale Gesù detronizza “il principe di questo mondo” e vince ogni peccato. Il destino di Giuda rimane sospeso, aperto, affidato alla sete di salvezza di Gesù. Solo il Figlio dell’uomo in persona (Gv 5,24-30) e la sua parola (Gv 12, 47-50) hanno voce in capitolo per un giudizio finale che nessuno di noi può anticipare.