Parola e vita
di Pietro Cioli
Papa Francesco nel riproporci quest’anno la figura di Giuseppe dice di aver pensato a “molte persone comuni, solitamente dimenticate, che non compaiono nei giornali o nelle passerelle dell’ultimo show”, al loro ruolo decisivo nei giorni della pandemia. In effetti Giuseppe, “con cuore di padre”, sa prendersi cura dei suoi in modo discreto, quasi di nascosto.
Ancora promesso sposo, nel venire a sapere della gravidanza di Maria con cui non c’entra, teme di prenderla con sé: la cosa è più grande di lui ed egli immagina di lasciarla senza clamori, amichevolmente. Ha intenzione di farsi da parte, ma nel suo pensare è aperto alla parola dell’angelo di Dio. Inaspettatamente, senza dare spiegazioni, conferma la scelta di sposarsi perché innamorato e perché, da credente, si affida al misterioso agire di Dio nella propria vita. Capita spesso anche a noi che le scelte quasi magiche degli inizi debbano poi, nei momenti difficili, venir confermate con audacia e con fede.
Alle volte diamo del sognatore a chi si perde nei suoi pensieri e non sa affrontare le situazioni. Per Giuseppe invece il sogno rappresenta capacità di ascolto e di visione, il fondamento per decisioni coraggiose: prima che sia troppo tardi diventa migrante e quando sente venuto il momento torna “ritirandosi” (anachorein) in Galilea, terra di gentili e pagani. A Nazaret località non troppo in vista, Gesù sarà chiamato Nazareno, consacrato a Dio e condurrà con Giuseppe e Maria una “vita nascosta” come ha ben ha inteso la tradizione cristiana.
Ci sono momenti in cui stare in disparte, ritirarsi, serve a disporsi e prepararsi a compiti nuovi. Il ritirarsi di Giuseppe può ispirare la chiesa di oggi nella ricerca della giusta via.
Fu papa Pio IX, 150 anni fa a proclamare san Giuseppe patrono della chiesa. E nel segno di Giuseppe egli si ritirò nei palazzi vaticani dichiarandosi addirittura prigioniero. Oggi, la fine del potere temporale dei papi appare una grazia, un evento propizio all’annuncio dell’evangelo, ma c’è voluto quasi un secolo ed il Concilio Vaticano II per riconoscerlo. All’inizio pareva una tragedia, un evento fatale per la missione della chiesa, ed invece le avversità spinsero la chiesa ad una rinnovata ricerca di Dio. La resa ad un destino avverso divenne obbedienza a Dio.
Oggi la chiesa ha perso la sua plurisecolare egemonia culturale; il suo giudizio, il suo insegnamento, le sue prescrizioni non hanno peso: è venuto forse il momento di “ritirarsi”.
Non un ritiro offeso e risentito come già accadde nel secolo scorso. Solo con il Concilio è stata superata la generalizzata polemica nei confronti dello stato laico e della civiltà liberale. Neppure, tuttavia, si deve passare, come talora in questi ultimi decenni, ad un’accondiscendente e precipitosa accettazione di tutti i cambiamenti sociali e di costume, magari per timore di apparire arretrati e fuori epoca. Il tempo del ritiro è un tempo intermedio in cui non si rinuncia affatto a vedere le differenze e la novità del vangelo, ma in cui ci si dispone al ripensamento. Il compito che ci attende è una paziente rilettura del vangelo che sappia distinguerlo dalla sistemazione catechistica convenzionale. Non è cosa che si possa improvvisare: non ci si può limitare a ripetere la lettera del vangelo come un repertorio di formule magiche, ma è necessario interpretare con esso i vissuti personali e le vicende dei popoli per cogliere in esse il positivo e il negativo .
Ci si ritira perché non si è ancora pronti a dire le parole giuste, non essendo ancora riusciti ad andare in profondità nel vivere le cose ed i tempi nuovi. La chiesa rimane “in uscita” perché si mantiene in relazione con le vicende del mondo in cui vive e con i vissuti degli uomini, che riconosce tutti fratelli. Ma lo fa “ritirandosi”, dedicando tempo per stare in preghiera con il suo Signore e confidando in quel che il vivere realmente insieme, dei pur pochi discepoli affezionati, può generare.
Se ci si ispira a Giuseppe il ritiro non può ridursi ad un segmento di tempo ma comporta di vivere il quotidiano, le relazioni ordinarie, ogni momento, come occasione per stare con Gesù. Senza presumere di avere già le parole da dire al mondo, liberi dall’ansia di dover ribattere a tutto quel che del cristianesimo si dice, facendo più attenzione alla vita nascosta di ognuno. Alla nostra e a quella di ogni altro perché stare vicini a Gesù non può non trasmetterci la sua stessa passione per ogni uomo.
Non dunque un malinconico allontanarsi da chi è troppo diverso da noi, da un mondo irrecuperabile, ma un vivere intensamente e con gran lena ogni cosa che facciamo. Lo Spirito agisce in noi ma non senza di noi: potrà trasformarci, suggerirci le parole da dire e i gesti da compiere, se agiremo generosamente, pur con molti limiti. Se insieme continueremo ad interrogarci sulla figura di Giuseppe potremo forse individuare la giusta via sulla quale perseverare.