Sottovoce

di Maurizio Dell’Acqua

Quand’ero bambino mio papà mi raccontava spesso una storiella, che all’inizio mi faceva ridere e, verso la fine, invece, capitava che mi tremassero le gambe dalla paura.
In Paradiso c’era un angelo bellissimo che si chiamava Lucifero. Era il migliore dei cherubini, tanto che il Padreterno si rivolgeva sempre a lui quando si trattava di risolvere particolari problemi degli umani sulla terra.
Un giorno Lucifero, di ritorno da una missione, trovò, sul suo cammino verso il Paradiso, uno stagno e si accorse che quello specchio d’acqua rifletteva la sua immagine. Si fermò di botto e si specchiò lì dentro, crogiolandosi per la sua bellezza.
E, così, cominciò col dirsi: «Che bello che sono! Sarà per questo che manda sempre me sulla terra? Mhmm!»
Intanto, il Padreterno, non vedendolo arrivare, lo chiamò a gran voce: «Lucifero, dove sei?» E lui, riconoscendo chi lo chiamasse, con un colpo d’ali, s’avviò senza indugio e, pure, rispose immediatamente: «Sono qui, Signore! Sto arrivando.»
Passò qualche tempo e di nuovo il Padreterno mandò ancora Lucifero sulla terra per una missione molto delicata. L’angelo della luce, questo è il significato autentico del suo nome, eseguì gli ordini ricevuti alla lettera e completò il suo compito benissimo come, d’altronde, era solito fare. Ma questa volta, visto che era sulla terra, volle ripassare ancora dalla strada dov’era lo stagno. Raggiuntolo, si fermò un poco a rimirarsi. E poi, cominciò ad autocelebrarsi: «Che bello che sono. Sono proprio il più bello. Sono sicuro che è per questo che manda sempre me sulla terra!»
«Lucifero, dove sei?» chiamò il Padreterno. Ma lui era immerso nella sua vanità e non diede molta retta a quel richiamo. Allora il Padreterno lo chiamò una seconda volta con voce ancora più forte: «Lucifero, dove sei?!» Ma a quel secondo appello lui sbuffò e rispose con tono seccato: «Vengo, vengo. Ancora un attimo» ma non si mosse di un passo. Fu allora che il Signore scese sulla terra e lo raggiunse. Ma Lucifero non si accorse di niente, immerso com’era nella sua vanagloria. «Lucifero, cosa stai facendo?» gli chiese il Padreterno, quando l’ebbe raggiunto ad un solo passo dalle sue spalle. «Oh, niente» disse, voltandosi di scatto un poco impaurito. «Ero stanco e mi sono fermato solo qui un attimo per riposare» soggiunse, poi, con tono elusivo.
«Dai, andiamo!» lo esortò il Signore. «Ho un’altra missione da assegnarti».
«Ma senti un po’?!» gli ribatté, invece, irriverente lui, con un tono a dir poco seccato e urticante. «Ma perché mandi sempre me sulla terra?»
Il Padreterno gli perdonò all’istante quell’infelice battuta e volle rabbonirlo: «Lo sai che mi fido di te più che di ogni altro!» All’udire ciò Lucifero strizzò gli occhi e gli replicò: «Perché sono il migliore?» Il Signore gli sorrise con un’espressione paterna edificante, e aggiunse: «Indubbiamente!» allora Lucifero fece il suo sguardo ancor più piccolo e, poi, mormorò: «E niente niente, sono migliore anche di te. Ed è per questo che mandi sempre me a risolvere il tuoi insulsi problemi sulla terra?» A quelle parole il Padreterno si adirò, gli si pose di fronte e gli urlò con voce potente: «Vile servitore infido! Sprofonda nel più lugubre averno! Dove già brucia un fuoco inestinguibile e pure vi sarà per sempre pianto e stridor di denti!»
In quel preciso istante la pelle di Lucifero, da chiara e lucente che era, gli divenne più scura dell’ebano, il capo gli si fece glabro in un istante, la fronte gli si corrugò, facendosi piccola piccola e, all’altezza delle tempie, gli crebbero due corna adunche. E subito dopo gli spuntò pure una coda biforcuta. Da quanto era frastornato per ciò che accadeva, non seppe dire neanche una parola in sua difesa. E fu così che precipitò all’inferno, dove ancor oggi dimora.
La sindrome di Lucifero è semplice da spiegare, ma difficile da comprendere nelle sue numerose sfaccettature, anche se in molti la soffrono.
Da oltre mezzo secolo la scienza mondiale studia questa patologia interiore dell’animo umano.

Già nel 1971 lo psicologo statunitense Philip Zimbardo della Stanford University, con un gruppo di ricercatori suoi studenti, approntò un esperimento per dimostrare che: tutte le persone, – indistintamente per sesso, età ed estrazione sociale –, in certe situazioni estreme perdono la loro capacità di giudizio e il senso morale e tirano fuori il loro lato peggiore come l’aggressività sadica e maligna, il piacere di far soffrire, umiliare, brutalizzare chi non è in condizione di difendersi. In quell’esperimento Zimbardo, divise in due gruppi i volontari che accettarono di partecipare a questo esperienza. Ai primi 10 assegnò il ruolo di carcerieri, ai secondi quello di prigionieri all’interno di un carcere simulato. Accadde che un esperimento pensato per durare due settimane dovette essere interrotto al sesto giorno in quanto gli studenti-prigionieri si calarono a tal punto nel ruolo che il grado di sottomissione e vittimizzazione sfuggì a tutte le previsioni degli psicologi di Stanford. La cosa peggiore fu che gli studenti-carcerieri iniziarono a sviluppare un sadismo e una crudeltà crescenti nei confronti dei compagni, che aumentava di pari passo con il grado di sottomissione dei reclusi. A conclusione di quella ricerca, Zimbardo pubblica il libro “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa” dove riporta i risultati di quella terribile esperienza.
Di diverso avviso è Francesco Lamendola, psicologo e docente all’Istituto Superiore “Marco Casagrande” di Pieve di Soligo – in provincia di Treviso –, il quale afferma che: in situazioni estreme, come la sopravvivenza a bordo di una scialuppa sovraccarica di naufraghi, con poche speranze di essere salvati e con poca acqua a disposizione, nel vivo della realtà, non attraverso simulazioni, si è visto che gli uomini sono capaci di tutto per non morire di fame e di sete. Però si è osservato anche qualcos’altro: che non tutti i naufraghi assumono quei comportamenti sopprimendo i propri compagni di sventura. Eppure ci sono persone che rifiutano di aderire a simili azioni estreme, anche se vengono a trovarsi in minoranza e anche se non possono impedire che avvengano; rifiutano, però, sino all’ultimo, di fare ciò che gli altri fanno. Ora, su un gruppo di venti persone disposte a praticare ogni nefandezza pur di sopravvivere, è sufficiente che ve ne sia una sola che non vi sia disposta, a dimostrare che il libero arbitrio esiste, dopotutto. Checché ne dicesse Lutero e checché ne dica il professor Zimbardo.
Altri studiosi riscontrano, sotto questo versante della psiche, un altro aspetto dell’atteggiamento umano, rilevando l’innata disposizione dell’individuo a prevaricare sui propri simili; a primeggiare, costi quel che costi, definendo questa patologia psicologica “La sindrome di Lucifero”. In altre parole si tratta proprio di questo: usurpare il posto, la posizione, il ruolo di qualcun altro solo per il fatto di ritenersi, o anche solo mostrarsi, migliore di questi. Ne soffrono i professionisti tra loro, gli allievi contro gli insegnanti, gli impiegati nei loro ruoli, e perfino i figli verso i genitori.
Si può guarire? Non ci sono medicine. Ma sicuramente ai sofferenti di questa patologia dell’animo si possono consigliare le parole di Gesù: «Un discepolo non è da più del suo maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo essere come il suo padrone». (Mt 10, 24-25) e ancora «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua». (Lc 9,23)
Già, quanto sia difficile rinnegare se stessi! Porsi, cioè, nella condizione di chi sbaglia, di chi non sa, di una solitaria minoranza, fa male dentro, si direbbe. Ma non è così. Prendere atto dei propri limiti, misurarsi con la realtà delle cose e, soprattutto con gli altri, nel rispetto di chicchessia, in una misurata e obiettiva dimensione è la medicina giusta per venir fuori da questa sindrome.
Il rinnegare se stessi semplicemente comporta nel porsi all’ascolto degli altri e non nell’aggredire. E, così, la nostra croce ci sembrerà più lieve, esattamente come ci consiglia Gesù. Compiere questo percorso è indubbiamente doloroso, ma salvifico. E si può riuscire con ottimi risultati, senza necessariamente essere santi.