Parola e vita

di Franco Giulio Brambilla Vescovo di Novara

Il giorno 11 febbraio memoria di santa Maria di Lourdes è tradizionalmente occasione di preghiera per i malati. Pensando a loro ed anche a chi di loro si prende cura pubblichiamo autorizzati dall’autore questa ricca riflessione del vescovo di Novara, figlio carissimo della chiesa ambrosiana, proposta recentemente alla Fondazione don Gnocchi.

Mi è capitato di dover preparare una relazione sulla bioetica, riprendendo la definizione di “salute” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il suo testo è del 1947, e quindi non tiene conto delle esperienze successive, come ad es. la cronicizzazione della malattia. Essa recita: «La salute è una condizione di perfetto benessere fisico, mentale e sociale, e non significa soltanto assenza di malattia». Questa definizione ci fa scoprire che siamo tutti… malati! È una definizione un po’ mitologica. Probabilmente può essere compresa in un contesto storico dove la complessità e anche la messa a fuoco delle diverse situazioni di malattia era molto più semplice e schematica.
Partiamo da una domanda semplice, che sappiamo è anche stata il rovello di don Gnocchi, in particolare riguardo al dolore innocente: qual è l’atteggiamento di chi cerca di illuminare il nostro approccio alla malattia, al dolore, alla sofferenza? Padre Carlo Casalone, in un suo recente intervento, afferma che la differenza tra dolore e sofferenza è la differenza che si colloca tra danno e senso. Il dolore segnala un danno alla vita della persona che impone di trovarne il senso. Tuttavia, non basta affermare solo la differenza tra danno e senso, ma anche il rapporto che s’instaura tra dolore e sofferenza. Il dolore è un campanello d’allarme per l’uomo. La sofferenza è la nostra percezione del dolore. Tale percezione non è solo conoscenza di un cambiamento della nostra condizione, ma essa apre uno spazio anche per la nostra reazione e per la nostra risposta.
Sappiamo che, nella cultura diffusa dell’ultimo secolo, le reazioni sono state fondamentalmente due. Esse in qualche misura hanno camminato parallelamente. Credo che anche i medici qui presenti e molti operatori che hanno di fronte il paziente – detto appunto “paziente” perché in prima battuta non è attivo, ma è passivo – fanno i conti con due atteggiamenti, che per certi versi sono coesistenti: uno ha radici più antiche e uno invece ricorda comportamenti più recenti. Il primo atteggiamento è quello della rassegnazione (passiva) e il secondo è quello della reazione (attiva).
Ciascuno di noi quando si pone di fronte alla malattia, o sta dinanzi alla paura e all’attesa di un esame clinico, e pensa a come dovrà reagire, si trova a coltivare dentro di sé questi due atteggiamenti: il primo più tradizionale è la rassegnazione passiva; l’altro, forse più moderno e figlio del primo, è la reazione attiva. Il secondo atteggiamento può camminare in modo parallelo al primo. La seconda risposta, quella della reazione attiva, è stata talvolta nel Novecento anche il motore della ricerca medica. Perciò noi osserviamo in modo prevalente questi due atteggiamenti, la rassegnazione passiva e la reazione attiva. È interessante che anche la predicazione cristiana sia andata a sovrapporre la parola “croce” al primo atteggiamento e la parola “risurrezione” al secondo, formulando due tipi differenti di risposte. La Parola della croce è stata spesso sovrapposta, talvolta in modo precipitoso, alla rassegnazione, tanto che “rassegnarsi” voleva dire portare la croce. D’altra parte, reagire attivamente prendeva spunto dall’annuncio della risurrezione, e affermava che il cristianesimo promuoveva la vita, la ricerca, un atteggiamento proattivo, per cui la lotta alla malattia diventava un compito etico, una forma alta di carità.
Qual è il difetto di questa duplice reazione fallisce di fronte al dolore? Che cosa manca in ambedue le posizioni, che sono evidentemente speculari? All’origine di entrambe c’è un errore filosofico-antropologico comune (teorico e pratico insieme). La sofferenza è vista come una “cosa” del malato, la malattia è una affezione che il malato ha, non è una realtà che tocca la persona. La lingua francese ha una bella espressione (que nous affecte), che in italiano si traduce “che ci tocca”, ma a ben vedere è un “toccare” che ci spreme dentro, che scava dentro l’anima e diventa una “prova per lo spirito”. La malattia è sovente trattata come una cosa, viene oggettivata, clinicizzata. Di fronte ad essa ci si può disporre soltanto nel gesto della “reazione” o in quello della “rassegnazione”, ma la sofferenza non diventa un interrogativo per la coscienza.

Quindi non pone il problema del senso.
Padre Casalone sottolinea, nell’intervento che ho ricordato, anche un’altra bella scoperta che fa parte dell’esperienza di tutti noi. Quando una persona deve fare un esame clinico, quando entra nei giorni della malattia, il tempo cambia di qualità…. Siamo costretti a metterci in attesa, c’è sempre qualcuno che arriva prima, anzi qualcuno salta anche la fila, e così il tempo assume un’altra dimensione. In questo modo si riduce lo spazio della nostra libertà. In realtà si riduce il margine di manovra della libertà attiva, ma facciamo esperienza di un altro tipo di libertà, per la quale una persona può incontrare un altro, può parlare con l’altro, può pensare a se stesso, insomma scopre un altro modo di vivere la libertà. Certamente la malattia ci ricorda che l’uomo non è soltanto “homo faber”, un uomo produttore, un uomo che trasforma, che capitalizza e che consuma.
Allora una via d’uscita della questione posta potrebbe essere questa: al di là della parola della rassegnazione e della croce o della parola del progresso e dell’ottimizzazione, sarebbe necessario vivere la sofferenza oltre l’alternativa tra soccombere e combattere. Questa alternativa non si può superare se non con l’intervento dello spirito. Dello spirito umano e dello Spirito di Dio!
La malattia spesso è censurata come una seccatura, un intralcio, un evento fastidioso, una cosa opaca di fronte alla quale non si pone il problema del significato, ma che soprattutto cambia il nostro modo di agire. Bisogna pensare ad un’azione di altro tipo: quella che ci fa entrare dentro una dinamica nuova, un’azione che ci pone in relazione nuova con gli altri. Qui emergono i diversi compiti: quello del paziente, del medico, dell’operatore sanitario, del parente, dell’amico. L’agire assume una duplice valenza: la malattia non comporta soltanto un reagire o un soccombere, ma, usando un’espressione del grande teologo Bonhoeffer, apre uno spazio di “resistenza e resa”.
Di “resistenza” attraverso tutte le dinamiche che si creano, anche belle, di attenzione e di ricerca, e qui si apre il grande campo della cura; e di “resa” solo a quel senso della vita che bussa alla porta della coscienza, attraverso l’esperienza della sofferenza, e che chiede di avere accanto una persona che si fa prossima e che speri con noi, standoci vicino e accompagnandoci con la sua presenza.
E, allora, quali sono i compiti che ne vengono? Sono compiti umani e cristiani. Attraverso l’esperienza della malattia dobbiamo incontrare il malato. È decisiva l’immagine che noi gli restituiamo, per esempio, con la nostra cura e la nostra prossimità. È necessaria tutta la tecnica, tutta la competenza, ma ancor più è decisiva la nostra relazione e prossimità. Noi riteniamo queste due cose alternative, invece più si differenzia il nostro approccio alla sofferenza, più la dimensione della prossimità diventa importante, soprattutto in situazioni che si definiscono croniche.
In termini più chiari bisognerebbe introdurre una relazione etica e spirituale: l’altro che è presente, il parente o l’operatore sanitario, restituisce un’immagine affidabile (o meno) al paziente. Quando andiamo all’ospedale, non sappiamo cosa dire all’amico, soprattutto se è giovane, e dirottiamo il discorso sulla domanda: “cosa ha detto il medico!”. Nessuno gli chiederebbe a bruciapelo: “Cosa stai imparando?”. Sarebbe una domanda troppo diretta e al senso comune appare sconveniente. Eppure nessuno come il malato sa che il periodo della malattia è un tempo di crescita? Attraverso la malattia, possono cambiare anche le relazioni familiari. Le esperienze che si vivono attorno al letto di un malato possono aprire uno spiraglio alla speranza, possono far condividere un senso che va oltre la rassegnazione passiva e la reazione attiva. È un atteggiamento col quale la sofferenza diventa luogo del senso e della buona relazione ritrovata e rinnovata. Esso fa apprendere una cosa che stiamo dimenticando tutti: l’esperienza che siamo “limitati” e “finiti”, che siamo vulnerabili.
L’esperienza del limite è l’esperienza attraverso la quale la gestione della sofferenza diventa sapiente, il che significa che non si vuole né sottovalutarla (ti sconfiggerò), né sopravvalutarla (mi rassegno). Da questo atteggiamento ne beneficerebbero tutti coloro che vivono l’esperienza della malattia: è il vero approccio spirituale, per cui – sembra una conclusione paradossale – non si può guarire senza l’intervento dello spirito, senza credere. Dobbiamo sentire la malattia come una sfida per lo spirito!
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