Vita in comunità
di Carmelo Santoro
Da ragazzo le sere d’estate restavo fino a tardi a parlare con la mamma. Mi piaceva ascoltare i suoi racconti. Spesso erano racconti di avvenimenti accaduti durante la guerra. Mi raccontava di quanto lei i suoi fratelli avessero sofferto la fame, delle fatiche disperate del nonno per procurarsi il cibo per tutta la famiglia (otto figli!), delle comunità sbandate, sfollate e disperse nelle campagne. E poi mi raccontava “di quando c’erano i bombardamenti”. Tutti gli altri erano racconti di fatica, di disagio, perfino di angoscia. Quelli sui bombardamenti erano racconti di terrore.
Quando suonava l’allarme antiaereo tutte le famiglie del caseggiato si ritrovavano in una stanza nell’appartamento al piano terreno. Le bombe cadevano a grappoli piuttosto vicine a quella (che è ancora la mia) casa, perché non molto lontano da lì c’era il porto con le basi militari della marina, obiettivo dei bombardieri. In quel piccolo rifugio di fortuna, alcuni parlavano a voce bassa tra loro. C’era chi invece stava in silenzio, con gli occhi chiusi e chi pregava il rosario tremando. E poi c’erano i bambini.
Sotto le bombe i bambini smettono di esserlo. Non hanno voglia di giocare, non hanno voglia di ridere. Negli occhi c’è il terrore di una violenza che non comprendono. E quando le bombe tagliano l’aria con il loro fischio stridulo i bambini si tappano le orecchie, sperando che scoppino un po’ più in là.
Lo zio Giovanni, il fratello della mamma, aveva pochi anni. Lo terrorizzava sentire la terra tremare quando le bombe scoppiavano sul terreno, e allora stava con le gambe ritratte e i piedini nudi staccati dal pavimento, “ché magari il terremoto si sente un pochino di meno”. Cicatrici del cuore che non si rimargineranno mai.
A queste cicatrici del cuore, soprattutto dei più piccoli, pensavo la sera del giorno 11 marzo scorso, partecipando alla bellissima veglia di preghiera organizzata per invocare la pace dalla nostra parrocchia insieme con quelle di S. Martino in Villapizzone e San Gaetano.
Mi ha colpito, anzitutto, la grande partecipazione dei fedeli. Nell’angoscia di questi giorni sentivamo, evidentemente, il bisogno di ritrovarci insieme.
La preghiera è scivolata via sentita donando conforto e speranza. I versi dei salmi e le pagine delle scritture sono stati alternati dal canto quieto di Nada te turbe, che ci invita a non aver paura, perché a colui che ha Dio non manca nulla: solo Dio basta.
Ho trovato particolarmente densi di significato la lettura di “Una preghiera di vera intercessione” del cardinale Carlo Maria Martini (che ci ricorda che intercedere significa fare un passo in mezzo, mettersi tra le due parti in conflitto: significa stare là, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione), la “Preghiera per la pace” di Giovanni Paolo II, con il suo grido accorato “Mai più la guerra!” e di “Preghiera della domenica mattina” di Etty Hillesum che, dal buio della prigionia di Auschwitz si affida con fiducia a Dio Salvatore.
I momenti di silenzio per consentire la riflessione personale mi sembravano grondassero di amore.
Al termine, preceduta dal dolce suono del flauto traverso che ci ha donato una straordinaria pagina di Ennio Morricone, l’assemblea tutta ha cantato “La guerra di Piero” di Fabrizio De André. È stato un canto sommesso, come di preghiera. Molti di noi avevano gli occhi lucidi nel cantare di questo soldato che non ha il coraggio di uccidere un altro uomo che aveva il suo identico umore ma la divisa di un altro colore, perché gli fa orrore il pensiero di uccidere e vedere gli occhi di un uomo che muore.
Alla fine della preghiera ci è stata consegnata una piccola spiga di grano, a simboleggiare i campi estesi di grano dei paesi oggi in guerra, ma anche i piccoli semi di pace che possiamo seminare ovunque e il dono di sé che Gesù ha fatto ad ogni uomo, facendosi Pane di vita.
Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro
Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto
Ma nel cuore nessuna croce manca
È il mio cuore il paese più straziato.
Giuseppe Ungaretti, San Martino del Carso. (da Il Porto Sepolto)