Parola e vita

di Pietro Cioli

In questi giorni il confronto civile, anche tra cristiani, sulla guerra e sulla pace è angoscioso e difficile. E’ un tema politico che interessa la giustizia tra le nazioni ed è anche un tema che interpella il senso dell’uomo e la sua dignità. Ho pensato di non affrontarlo direttamente, ma ispirandomi alle pagine di un libro letto da giovane, rifletto su un caso diverso, non storico-politico, un’esperienza molto comune che presenta tuttavia qualche analogia: come noi cristiani prepariamo i figli alla vita.
Gesù ci ha parlato e soprattutto ci ha mostrato un modo unico di amare. Un amore incondizionato, che gioisce della reciprocità, ma che sa anche porsi con gratuità verso chi non riesce a contraccambiare e che arriva al perdono dei nemici a costo della vita. Impegnati a vivere nel suo nome, noi invitiamo spesso i nostri ragazzi ad essere accoglienti con tutti, generosi, a non reagire alle offese, perdonando e volendo bene anche a chi ci fa del male. Tuttavia, quando stanno per uscire di casa, facciamo loro altre raccomandazioni: “non dar retta a chi non conosci, non prendere doni dagli estranei, ci sono adulti che fanno del male ai ragazzi, cerca di non farti prendere le cose dai compagni, fatti rispettare e non restare troppo indietro, ci resteresti male tu per primo”. Ci pare giusto avvertire i nostri figli che il male è una realtà del mondo e che per proteggerci è necessario essere severi, riservati, talora persino dissimulare o adirarci. L’altro può essere infido, violento, prevaricatore e va contenuto. Spesso l’arrendevolezza e talora anche la mitezza in prima battuta, invece di fermare la prepotenza incoraggiano alla cattiveria e al sopruso. Come giudicare queste parole? Un adattamento del vangelo alla vita reale che lo attenua e lo depotenzia?
Credo ci sia dell’altro: la persuasione che la disponibilità ad affrontare il conflitto è uno dei modi, persino doveroso, di fare il bene. Se vuoi affermare la giustizia devi avere il coraggio di opporti al malvagio e di fermarlo per quanto possibile. L’impegno per il bene esige anche fermezza: resistere ai ricatti, denunciare le prevaricazioni, difendere le persone deboli, impedire le azioni violente.

Chi compie il male deve sapere che è riprovato, che sarà punito e che dovrà riparare. Non puoi sempre convincerlo a parole, neppure se prese dal vangelo. Il giudizio, la pena e la riparazione, con il loro carattere polemico e conflittuale sono spesso atti simbolici necessari per affermare la giustizia. Certo c’è modo e modo di praticare il conflitto e si può discutere a lungo su come farlo, su quali siano i mezzi più adatti, ma va evitata ogni doppiezza. Se vuoi condannare la menzogna devi biasimare il mentitore. L’affermazione del bene che non si misura con la censura del male rischia di apparire retorica e falsa. Tirarsi indietro è una forma di viltà e di debolezza umanamente comprensibile ma non giustificabile moralmente. Non puoi essere affettuoso nello stesso modo con il seviziatore e con la sua vittima perché ciò equivale ad una totale indifferenza e non è certo un modo di testimoniare l’amore evangelico.
Non escludo che ci si debba anche impegnare a prevenire i conflitti e le sue ragioni ma ci sono situazioni in cui l’affermazione della giustizia può armare il mio braccio per proteggere me stesso, i miei cari ed anche l’altro innocente. Nell’esperienza storica il male non è scomparso e l’annuncio del regno incontra un’opposizione violenta di cui dobbiamo tenere conto. Rimuovere i simboli del conflitto è un ingenuità pericolosa: noi non possiamo perseguire il bene senza figure di valore come la lotta per la giustizia e la difesa della libertà. “Dov’è carità e amore li c’è Dio, ma dove non c’è scandalo per l’ingiustizia e lotta contro l’oppressione Dio non è onorato” (P. Sequeri, Il timore di Dio, Vita e pensiero 1993).
Mi fermo qui anche se ci sarebbe altro da dire a proposito della ricerca della pace e del modo con cui Gesù accetta di morire non per viltà ma per smascherare la violenza che pretende di legittimarsi in nome di Dio e della verità. Il confronto deve continuare.