Scrittura e scritture
di Carmelo Santoro
Era una bella giornata di primavera del 1970. Ero andato, con i miei genitori e mio fratello, a fare visita al nonno. Ricordo come fosse adesso i suoi occhi stretti in un sorriso felice quando mi vide arrivare.
Quel giorno il consueto e felice tran-tran dei giochi con lui fu interrotto da un avvenimento inatteso. Suonarono alla porta: era il postino che consegnava un telegramma. Ricordo la febbrile e preoccupata curiosità di tutti i familiari “che quando arriva un telegramma sempre male nuove ci sono”. E dall’altra parte la serafica serenità del nonno, che quasi si divertiva a giocare con me per perdere tempo prima di aprire la busta, quasi volesse fare un dispetto a chi, mio padre per primo, voleva sapere subito di cosa si trattasse. Ad un certo punto, rotti gli indugi, prese in mano il telegramma, si munì di un coltello in modo da aprire la busta senza stracciarla, si sedette al tavolo del suo studiolo e lesse. Era la comunicazione con la quale veniva informato che gli era stata conferita l’onorificenza di cavaliere di Vittorio Veneto, per avere combattuto durante la Prima guerra mondiale. Ricordo la gioia orgogliosa di tutti i miei familiari, e la mia conseguente felicità impaziente, anche perché mi ero convinto che, ora che il nonno era cavaliere, si sarebbe necessariamente e con sollecitudine dotato di un cavallo, cosa che però, con grande mia delusione, non avvenne mai.
Fu, quella, giornata di visite (e, ahimè, di pochi giochi) perché la notizia si era diffusa in paese con una velocità che nessun algoritmo odierno potrebbe spiegare. Il nonno accoglieva tutti con cordialità. Ogni tanto mi lanciava con gli occhi qualche cenno di intesa, affinché non mi sentissi trascurato da lui. Dal canto mio onoravo volentieri, visita dopo visita, i vassoi di pasticcini, dolciumi, caramelle e cioccolatini che li ospiti portavano in dono.
A sera, quando l’ultimo ospite fu andato via, il nonno mi chiese se fossi contento per lui, anche se avevamo giocato poco. Gli risposi di sì, anche e soprattutto per la necessaria ed imminente acquisizione del cavallo, argomento sul quale, tuttavia, il nonno fu piuttosto evasivo.
Il nonno morì dopo poche settimane da quegli eventi. Così, nel successivo mese di luglio (avevo cinque anni) fui io a ricevere al posto del nonno, dalle mani del delegato del prefetto, le insegne dell’Ordine di Vittorio Veneto. Ricordo nitidamente l’affollata aula consiliare del Comune, le lacrime di mio padre, la sensazione strana della pressione delle dita del delegato del prefetto sul mio petto mentre mi appuntava le medaglie e la delusione che provai quando, a cerimonia conclusa, mia madre volle inspiegabilmente togliermi le medaglie dal petto prima di darmi il permesso di andare a giocare a pallone nel cortile.
Prima di uscire dall’aula consiliare incrociai don Francesco, un caro amico del nonno, a sua volta insignito della stessa onorificenza. Mi abbracciò e mi raccomandò di conservare con cura quelle medaglie che portavo sul petto perché “ci sono dentro tante lacrime e tanta sofferenza”.
Lì per lì non capii il significato vero di quelle parole. Le trovai compatibili con le mie emozioni di quel giorno, perché associavo lacrime e sofferenza alla perdita del nonno, ma non le associavo al suo vissuto durante la guerra. Lo capii qualche anno dopo quando mio padre mi raccontò di quanto il nonno avesse sofferto durante la guerra. Per la morte di decine di amici e commilitoni, per il veleno dell’odio che la retorica di tutte le guerre inietta nelle vene della società, per la distruzione di cui era stato testimone.
E come il nonno, stretto nel deserto di quella disperazione, avvertì il senso di Dio e vi si aggrappò con tutta la sua forza, prego affinché il Signore operi nelle coscienze degli uomini e infonda la pace del suo amore.
Chiuso tra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà)
perché bramo Dio?
(Giuseppe Ungaretti, L’allegria)