Sottovoce
di Maurizio Dell’Acqua
Mi ricordo di alcuni colleghi, dell’azienda in cui ho lavorato, i quali, informati su certi problemi che in un futuro molto prossimo avrebbero potuto coinvolgerli, rispondevano sempre con una frase che sminuiva finanche la loro dignità. “Io penso al mio orticello e basta!” si schermivano. E se qualcuno si fosse permesso di insistere su quell’argomento, avrebbero replicato ancora con la stessa flemma debilitante. “Ve l’ho già detto: io penso solo al mio orticello. Sistemato quello, me ne sto tranquillo. Non mi interessano le vostre beghe. Non sono affar mio. Pensateci voi. Io mi chiamo fuori. E ditelo pure a tutti gli altri di non disturbarmi più con le vostre storielle!”.
Certo, si defilavano dietro quella parola che, naturalmente, veniva detta in senso figurato per indicare quel che era esclusivamente la loro mansione aziendale, ma io mi sono sempre chiesto quanto grande dovesse essere quel loro orticello, che tanta cura e tempo aveva bisogno per essere gestito e lavorato da impedir loro di interessarsi d’altro. A me pareva intuitivo, però, che non doveva essere di grandi dimensioni, dato che orticello è il diminutivo di orto ed è universalmente risaputo che l’orto, inteso come luogo, non ha misure chilometriche. Col tempo ho capito che quel modo di parlare era realmente un sottrarsi alle responsabilità sociali e, a volte, anche morali a cui doverosamente ognuno è chiamato talvolta a rispondere.
Mi sono chiesto continuamente, in questi due anni di sofferta pandemia, quale sia stata la loro posizione. Se han capito che vivere in una società ci sono responsabilità da assumersi, compiti da svolgere, impegni da affrontare.
Ma forse sono usciti dal loro orticello solo per vaccinarsi, se ne hanno compreso l’utilità e la sicurezza personale e sociale. Sicuramente, in questi ultimi mesi si saranno dichiarati pacifisti. Avranno, di certo, condannato prontamente l’invasione russa, affermando con piglio sicuro di essere contrari ad ogni tipo di violenza. Ma anche il loro comportamento è violenza. Anche il non fare è violenza. Anche il non voler sapere è violenza. Dante li avrebbe definiti ignavi e li avrebbe collocati nell’Antinferno, poiché li avrebbe reputati indegni di qualunque cosa, sia delle gioie del Paradiso che delle pene dell’inferno. Ma queste non sono soluzioni che consolano. Dal 24 febbraio, giorno in cui è cominciata l’invasione russa dell’Ucraina, i quotidiani hanno riversato fiumi d’inchiostro per condannare quell’aggressione. Avrò letto una quantità planetaria di articoli, tanto da confondermi coi titoli e i relativi autori. Però mi sono rimaste impresse alcune parole, che non so a chi attribuirle, ma che ben sintetizzano i tempi in cui viviamo.
“I pacifisti parlano della pace, desiderano la pace, inseguono la pace, senza preoccuparsi di come fare per raggiungerla e farla affermare. Il costruttore di pace non discute mai di pace, ma agisce ogni giorno edificandola con il suo lavoro, sostenendola con le sue opere, con il suo comportamento mite, con il suo esempio, perché sia raggiunta al più presto, ristabilita senza condizioni e consolidata nel tempo”. Mi viene spontaneo paragonare queste ultime parole alla settima beatitudine insegnata da Gesù e descritta da san Matteo nel suo vangelo: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.” (Mt 5, 3-12)