Sottovoce

di Maurizio Dell’Acqua

Celebrare una vittoria non è cosa difficile. Soprattutto, poi, quando si tratta di una competizione calcistica, come quella di Euro 2020. I media, sia telematici che quelli della carta stampata, si sono sbizzarriti all’indoma-ni della conquista da parte degli Azzurri dell’ambito trofeo. Ma non è di questo che voglio discutere, piuttosto di un atteggiamento. I rigori hanno decretato il vincitore e il cerimoniale ora impone agli organizzatori di passare alla premiazione delle due squadre finaliste. Tutto è pronto. In fretta e furia è stato allestito un podio nel centro del campo di Wembley. Il protocollo prevede che per primi siano premiati gli sconfitti, con la medaglia d’argento. Ad uno ad uno gli inglesi passano tra due ali formate dai calciatori azzurri, prima di raggiungere il podio.
A ciascuno spetta una medaglia. Fermandosi davanti alle autorità dell’Uefa, un alto funzionario gliela pone al collo. Ma ecco, tutti, uno dopo l’altro, ricevuta la medaglia, presto se la sfilano, mostrando nel contempo un’espressione sprezzante. Perché? Mi sono chiesto. A chi è indirizzata quella smorfia? A chi è rivolto il loro disprezzo?
Non ci sono stati durante la partita episodi dubbi che possano giustificare un risentimento verso l’arbitro o contro la squadra avversaria. Tutto è stato solare, anche se a Londra pioveva.
Riflettendo, penso che il loro dissenso possa essere incentrato contro l’avverso destino, la cattiva sorte che non li ha prescelti come vincitori. Ma questo che c’entra con la medaglia? Tutto si è svolto lealmente e alla fine i vincitori sono stati gli Azzurri. A quel punto mi viene in mente l’espressione ingiuriosa del portiere inglese Pickford contro Chiellini che esultava per la vittoria. Dove è finito il loro sempre ostentato fair play? Che forse vale solo per gli altri? E per quale bizzarro motivo si ritenevano già campioni d’Europa e, per questo, legittimati a non accettare che la sola medaglia d’oro e la coppa, ancor prima dell’inizio della partita?
A questo punto si può ipotizzare che il disprezzo sia rivolto a quelli che festeggiano la vittoria! E se fosse toccato a loro vincere?! Tutto regolare? Sul Web circolano le canzonature su alcuni giovani inglesi che il giorno prima della partita si sono fatti tatuare sui polpacci la Coppa Europa con la scritta England winner, cioè: Inghilterra vincitrice. E pure a me par strano che quei giovani calciatori inglesi, con la faccia da bravi ragazzi e in certi momenti con espressioni dai tratti ancora efebici, tanto da rassomigliare tantissimo agli adolescenti dei loro prestigiosi college, abbiano mostrato il lato peggiore della natura umana: la superbia!

È logico che questo atteggiamento abbia di conseguenza scatenato sui social la scimmiottatura del loro motto con cui hanno accompagnato le precedenti vittorie al grido di It’s coming home! (Sta tornando a casa!) che già Florenzi, nell’esultanza a fine rigori, aveva trasformato in: It’s coming Rome! (Sta tornando a Roma!) riferendosi alla Coppa Europa, naturalmente. E allo stesso modo li hanno sbeffeggiati i cugini scozzesi, da sempre irriducibilmente a loro ostili, titolando con quel motto italianizzato le prime pagine dei quotidiani locali il lunedì successivo.
Eppure, un loro connazionale popolarissimo, tale Shel Shapiro – leader dei The Rokes –, a Sanremo, nel lontano 1967, cantava: Bisogna saper perdere. E, poi, riprendeva: Non sempre si può vincere. E allora cosa vuoi?
Certo, la sconfitta ha sempre il sapore amaro, ma l’avversario va rispettato comunque, che si sia vincitori oppure vinti e ancor più quando è stato leale nel confronto agonistico come lo sono stati gli Azzurri.
Arroganza, superbia, maleducazione: con que-sti attributi non si può meritare nessuna medaglia se non solo quella del biasimo e della disapprovazione e non si sarà mai bravi ragazzi.
Di ben altro tenore, mi permetto di sottolineare, è stata la lezione del ct Mancini all’ultima riunione prima della finale. Appena terminato di spiegare su un tabellone la composizione della formazione che sarebbe scesa in campo, con tono sereno, ha aggiunto: Ricordate che i padroni del vostro destino siete voi. Non l’arbitro. Non gli avversari. Ma voi!
Certo, non ha inventato niente, già gli antichi latini sottolineavano convintamente ai superstiziosi: homo faber fortunae suae. Oggi potremmo tradurre con: ognuno fa la propria fortuna. E così è andata. Un giovanissimo portiere, sicuro di fare solo il proprio dovere fino in fondo, all’ultimo rigore, ha steso all’impossibile la propria mano, impedendo al pallone di entrare in rete. E nemmeno si era accorto che cosa grande aveva fatto, fintanto che i suoi compagni lo hanno raggiunto e lo hanno sommerso di abbracci.

Io non ho niente contro i sudditi di sua maestà, ma questa è una bella lezione di umiltà da vero campione. Da imparare, da emulare e ricordare perennemente.