Scrittura e scritture
di Carmeno Santoro
“Milittu: vieni con me”.
Quando il nonno chiamava non si discuteva: si obbediva e basta. Perciò lasciai i soldatini sparsi sul pavimento, presi la mano del nonno e lo seguii.
Era una bellissima giornata della tarda primavera.
“Dove andiamo, nonno?” gli chiesi mostrando una certa impazienza.
“Preparati: ci sarà da lavorare”.
La situazione prometteva già sviluppi interessanti. Quello sguardo complice del nonno lo conoscevo bene: ogni volta era un gioco mai fatto prima, un’esperienza nuova da raccontare alla mamma e al papà.
Mi portò nello stanzino degli attrezzi. Era, quello, un piccolo magazzino adiacente all’orto di casa. Noi bambini non avevamo il permesso di entrarci, pena le punizioni più severe. Vi erano vanghe pesanti, forbici affilate, rastrelli appuntiti, e poi un potente (?) motore elettrico che serviva a pompare l’acqua del pozzo per l’irrigazione dell’orto. E si sa: le cose elettriche sempre pericolosissime sono. Quindi: anche soltanto entrare con il nonno nello stanzino degli attrezzi era di per sé evento degno di nota. Mi guardavo intorno eccitatissimo: alle pareti grandi pannelli verdi, ai quali erano appesi decine di attrezzi che mi sembravano straordinariamente affascinanti. Erano martelli, chiavi inglesi, aggeggi di ogni forma e colore dei quali mi chiedevo quale fosse l’utilizzo. E una piccola morsa che si allargava e stringeva manovrando una bacchetta metallica. Poi, appoggiati alle pareti, vanghe, pale, zappe e rastrelli di ogni misura.
“Siediti lì”, disse il nonno indicandomi una sediolina rossa. Naturalmente obbedii volentieri. Il nonno si inginocchiò davanti a me e cominciò a slacciarmi le scarpe. Poi mi aiutò a calzare due stivaletti, di quelli che si usano quando piove. Quindi si alzò e mi infilò dalla testa e poi allacciò in vita un grembiule.
“Ecco giovanotto: questa è la tua attrezzatura”.
Egli stesso, poi, calzò stivali e indossò un grembiule.
“Prendi la tua zappa”, e mi indicò un punto della parete dove era appoggiata una zappa piccolina, con il manico adatto a me. Poi mi diede un bacio.
“Andiamo” disse. Prese a sua volta una zappa e uscimmo nell’orto.
Potevo toccare il cielo con un dito. Mi sembrava fossimo, con il nonno, giocatori della stessa squadra perché indossavamo la stessa divisa. E la confidenza “da grande” con la quale mi trattava alzava di molte tacche il volume della mia ingenua euforia.
“Fai attenzione a non rovinare i solchi. E a non pestare le piante di melanzane” disse il nonno, mentre mi guidava tra i piccoli sentieri dell’orto. Potevo sentire il profumo dei pomodori, con le loro foglie carnose, vedevo lunghe zucchine pendere tra i filari. Era un mondo colorato che non avevo mai visto così bello. Il nonno camminava lentamente, sfiorando di quando in quando le foglie delle piante più vicine alle sue mani, come se le accarezzasse.
Camminammo fino al confine dell’orto, vicino al muro di cinta. Lì la terra era spoglia: nessuna foglia verde, nessun fiore. Solo terra nuda.
“Diamoci da fare, giovanotto” disse il nonno. E cominciò ad affondare la zappa nella terra. Assestava colpi regolari e mi piaceva il rumore secco della zappa che tagliava il terreno. Pian piano dai solchi della terra smossa cominciarono ad affiorare piccole tonde patate marroni. Il nonno zappava sicuro, con un leggero sorriso sulle labbra. Sembrava esattamente dove andare a scavare per trovare le patate: le scovava, le prendeva sul piano della zappa e le posava in una grossa cassetta di legno.
“Forza: non ti ho portato qui per guardare”, mi disse sorridendo.
E qui per me cominciò la festa. Zappavo felice assestando colpi sul terreno ad imitazione del nonno. E quando, per caso, una patata occhieggiava sotto il pelo della terra urlavo di gioia. Cominciavo a scavare tutt’intorno nell’ingenuo intento di non rovinare quel tesoro con qualche movimento maldestro, e poi lo raccoglievo per ottenere il plauso ammiratissimo del nonno, per poi depositarlo nella cassetta di legno.
Dopo una mezz’oretta di faticosissimo (?) lavoro, il nonno prese il tubo di una pompa e cominciò a bagnare le patate che avevamo raccolto: man mano che la terra si scrostava scintillavano dorate al sole.
Alla fine, il nonno prese un’altra cassetta di legno vuota, la capovolse e vi si sedette sopra. Poi mi tirò a sé.
“Sei felice?” mi chiese sorridendo
“Sì”, risposi
“E’ questo che Gesù vuole per noi, sai?”
“Le patate?” chiesi, incredulo.
“Macché patate, babbu: la felicità”.
Questa volta lasciate che sia felice,
non è successo nulla a nessuno
non sono da nessuna parte
succede solo che sono felice
fino all’ultimo angolino del cuore
…
Fatta di pane e pietra la terra
L’aria canta come una chitarra
(Pablo Neruda, Ode al giorno felice)